Avv. Roberto Giorgi Ronchi-UNA RIFLESSIONE SUI SUICIDI IN CARCERE


Serve riflettere sul contesto in cui è maturata questa tragedia per meglio comprenderne le cause, e dunque per mettere in campo i migliori rimedi. Dobbiamo capire come siamo finiti qui: eravamo partiti da un carcere che doveva essere luogo in cui certo si sconta la pena, ma anche un luogo in cui si lavora per recuperare il condannato alla società, un luogo in cui si comincia a praticare giustizia riparativa, dunque a comporre i conflitti, a curare le ferite della nostra comunità, ed invece ci ritroviamo con un carcere che è divenuto un inferno in terra, un inferno senza speranza di redenzione.

Il Paese in cui viviamo è in decadenza da decenni, decadenza economica ma anche ed anzi ancor prima decadenza culturale: le diseguaglianze sociali si sono aggravate, le persone in povertà sono aumentate, milioni di cittadini hanno smesso di curarsi perché a fronte delle interminabili liste di attesa nella sanità pubblica non dispongono dei redditi necessari a curarsi presso la sanità privata; il dramma della denatalità mette a repentaglio il futuro delle nostre comunità, mentre la dispersione scolastica è tra le più gravi in Europa ed il numero dei diplomati e laureati è tra i più bassi in Europa.

Quel che stiamo vivendo insomma è una decadenza civile, una vera e propria crisi di civiltà.

In questo scenario la Giustizia, uno dei settori più importanti e delicati della nostra società, non poteva certo rimanere indenne: il dibattito politico e più in generale il dibattito pubblico sulla Giustizia è dominato da anni da una demagogia forcaiola, violenta, crudele e pericolosa, in forza della quale le garanzie dei cittadini e financo i diritti umani fondamentali vengono aggrediti e rimessi in discussione. Abbiamo assistito ad una progressiva erosione delle garanzie difensive nel procedimento penale, in particolare nei giudizi di impugnazione, mentre contemporaneamente vengono istituiti sempre nuovi reati, con previsione di pene sempre più severe ed un uso massiccio della carcerazione preventiva.

Il mondo del carcere soffre di una tragica mancanza di risorse, materiali e sopratutto umane: mancano in molte sedi, piante organiche alla mano, agenti di polizia penitenziaria, psicologi ed educatori, magistrati di sorveglianza, cancellieri dei tribunali di sorveglianza.

Ad oggi il sistema dell'esecuzione penale è – in più punti, in molti suoi segmenti – gravemente illegale, e viola diritti fondamentali delle persone, come sanciti dalla Costituzione e dai Trattati internazionali che l'Italia ha sottoscritto. Per ripristinare la legalità dell'esecuzione penale serve qui ed ora un indulto, un provvedimento di clemenza che possa tamponare la gravissima situazione e salvare vite umane, letteralmente. Servono poi con urgenza investimenti, ma per farli occorre mettere in

campo una volontà politica che sinora è mancata, perché si pensa che questi investimenti non porterebbero consenso, ma al contrario farebbero perdere consenso politico.

La comunicazione svolge un ruolo essenziale in questa vicenda: i media ed i social media ci restituiscono un'immagine deformata e persino grottesca della nostra società, che appare come una comunità incattivita, pronta a coprire di odio in particolare i più deboli, ed i carcerati sono i deboli tra i deboli. Un'immagine deformata perché le persone non sono così malvagie, deformata perché tante persone di buona volontà non hanno voce sui social, ma un'immagine con cui tutti fanno i conti.

Abbiamo ricordato in queste settimane la tragedia di Enzo Tortora, quella scena ignobile della persona costretta a sfilare con le manette ai polsi avanti alle telecamere. Oggi la comunicazione sui temi della Giustizia è in condizioni ancora peggiori, se Tortora vivesse oggi il suo calvario egli verrebbe coperto di odio sui social, e con lui verrebbero sicuramente coperti di odio anche i suoi avvocati.

Passa insomma l'idea che il pubblico voglia la pena come vendetta, come castigo senza redenzione, una piazza mediatica che grida il suo crucifige nei confronti dei dannati nelle carceri, di fronte ad un ceto politico che, novello Ponzio Pilato, se ne lava le mani ed asseconda la folla urlante.

Si tratta però di una rappresentazione appunto falsata e deformata: i cittadini chiedono giustamente più sicurezza, ma sono in grado perfettamente di comprendere, ad esempio, che investire sul recupero di un condannato non servirà solo a lui, ma significherà investire sul futuro di tutti noi, perché un uomo che sia effettivamente cambiato non commetterà altri crimini, e nessuno dovrà soffrire ingiustamente in futuro per causa sua.

Non è vero che il grande pubblico voglia “buttar via la chiave”: vero è che la demagogia manettara tiene banco nel mondo della comunicazione, vero è che chi difende le ragioni del diritto e dei principi costituzionali spesso parla con voce flebile e non viene udito.

Servono prese di posizione e di protesta più severe: dobbiamo alzare la voce, in modo che arrivi a tutti.

Penso ad esempio ad uno sciopero della fame fatto non solo da alcuni coraggiosi esponenti politici, com'è avvenuto sinora, ma anche da tantissimi professionisti ed operatori del settore in tutto il territorio nazionale: uno sciopero della fame collettivo per protestare contro la condizione di grave, conclamata illegalità in cui versano molte delle carceri italiane.

Spero che le tante maratone oratorie meritatamente promosse nelle piazze in questi giorni contribuiscano ad accendere una speranza in chi non ha più speranze, a far sentire meno solo chi soffre per condizioni di detenzione inumane e degradanti.

Avv. Roberto Giorgi Ronchi-Avvocato cassazionista- abilitato ad esercitare avanti alla Corte penale internazionale dell'Aia


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